Stampe d’arte “photo art”.
La resino-pigmentype
Stampe d’arte photo art. Le tecniche di stampa oggi in uso, sia ai sali d’argento, sia a getto d’inchiostro permettono di ottenere copie di immagini perfettamente uguali l’una all’altra in un numero di copie infinito. Tutti questi metodi producono stampe tecnicamente perfette, siano esse prodotte da pellicole analogiche, sia da file digitali.
Maurizio Paolo Grassi, sin dalle prime esperienze di stampa fotografica ha subito rilevato come la classica carta fotografica, pur fornendo immagini tecnicamente perfette non riusciva a rappresentare la “quarta dimensione” dell’immagine: la profondità necessaria nelle stampe d’arte.
Nella fotografia le prime due dimensioni riguardano il campo dell’immagine, la terza dimensione rappresenta l’attimo in cui la foto è stata catturata. La “quarta dimensione” è quella che secondo Maurizio Paolo Grassi lega la rappresentazione fotografica all’arte tridimensionale della scultura e cioè lo spessore, il rilievo dello strato di pigmento depositato sulla carta della foto d’arte.
Impossibilitato per l’insufficienza degli strumenti tecnici a rendere la plasticità della quarta dimensione l’artista ha lasciato la maggior parte delle sue fotografie, riprese a partire dalla metà degli anni ’70 del ‘900, a “stagionare” sul proprio supporto di pellicola in attesa di poter un giorno sviluppare una tecnica di stampa capace di esaltare la matericità dell’immagine.
Nel 2015, mentre la maggior parte delle stampe fotografiche d’arte è eseguita con sistemi digitali a getto d’inchiostro o con sofisticate apparecchiature laser, Maurizio Paolo si mette alla ricerca di una tecnica di stampa manuale in grado di fornire plasticità e durata alla fotografia su carta.
Recupera quindi l’unica tecnica per stampe d’arte che permette un completo controllo dell’artista inventata negli anni Venti del Novecento da un italiano, il professor Rodolfo Namias.
Profondità di toni e permanenza
La tecnica per stampe d’arte, in origine denominata resinopigmentipia o resinotipia è uno dei pochi procedimenti, oltre all’uso della gomma bicromata e del bromolio, che sfruttano le caratteristiche chimico-fisiche della gelatina e non la proprietà fotosensibile dei sali d’argento o di altri elementi sino allora usati.
Ciò conferisce alle immagini una profondità di toni e una permanenza nel tempo il cui limite è solo quello della durata della carta di puro cotone utilizzata quale supporto per le opere.
In sintesi la resino-pigmentype consiste in una stampa fotografica ottenuta manualmente, in cui l’immagine latente diventa visibile per mezzo del trattamento della superficie con un pigmento naturale, distribuito dall’artista con un pennello. In questo modo è possibile schiarire le ombre e rinforzare i bianchi, fino ad ottenere l’effetto voluto.
Il risultato è sorprendente: la superficie della carta, trattata con gelatina, trattiene il pigmento nelle zone d’ombra e lo respinge nelle zone luminose, acquisendo così la tridimensionalità, proprio in virtù di questo deposito di pigmento che aderisce alla gelatina.
Le stampe d’arte sono ottenute per contatto utilizzando come matrice un ingrandimento su pellicola.
Opere uniche
Caratteristica della resino-pigmentipia è quella di fornire stampe d’arte sempre diverse l’una dall’altra essendo il processo controllato dalla mano dall’artista.
Le copie di ogni immagine sono prodotte in edizione limitata e caratteristica fondamentale è che ogni copia di un’immagine è sempre unica, originale e sempre di versa dalle altre copie.
L’inventore del processo originale, il Professor Rodolfo Namias scriveva a proposito della resinotipia:
“ Ad un processo di stampa fotografica artistica si chiede: Intensità di ombre, ricchezza di chiaroscuro, superficie opaca, varietà di colore d’immagine, possibilità d’intervento dell’operatore, effetto finale che si differenzi dalle fotografie propriamente dette (…) Tutti questi requisiti sono posseduti al più alto grado dalla Resinopigmentipia”
Paolo Grassi ha sperimentato per circa un anno un procedimento di stampa ispirato alla resinotipia con l’utilizzo di materiali e metodi alternativi rispetto alla tecnica originale ma uguali dal punto di vista del risultato finale. La sperimentazione ha permesso la messa a punto sia del procedimento chimico-fisico, sia di una apposita strumentazione per l’esecuzione delle varie complesse lavorazioni.